PRIME ESPERIENZE CULTURALI E PRIMI SCRITTI
DI GIACOMO NOVENTA

Giacomo Noventa ha un ruolo di primo piano nella cultura del Novecento per il valore delle sue opere, delle teorie letterarie e politiche, che pongono al centro di ogni concezione l’uomo e lo richiamano alle responsabilità umane e civili.
Ora che si può leggere tutto ciò che ha scritto e valutarne appieno la complessità (1), è necessario tentare altre letture che, ancor più degli studi che sono già stati fatti, evidenzino l’originalità e l’autorevolezza della sua visione metafisica contrapposta a ciò che è prodotto dal materialismo dialettico.
La produzione letteraria e la passione politica di Noventa sono la messa in atto delle sue teorie che, tese ad un rinascimento e ad una crescita spirituale e civile, enunciano una letteratura di continua invenzione con le strutture linguistiche aperte ad ogni sperimentalismo e una politica di riforme liberal democratiche, negano con forza lo storicismo e il pragmatismo che hanno trovato espressione in una pseudo-letteratura e hanno legittimato i regimi totalitari, sia comunisti che fascisti.
In Italia non si ha un’altra personalità tanto determinata nell’indicare con grande passione e lucidità ciò di cui deve essere fatto tabula rasa e quelli che sono i valori indispensabili per un rinnovamento.
Una tale determinazione è dovuta non certo ad una sopravvalutazione delle proprie teorie ma alla consapevolezza di aver raggiunto, dopo molte letture ed esperienze culturali, una visione d’insieme delle varie arti alla luce dei nuovi modelli espressivi che fra Ottocento e Novecento si andavano sempre più affermando in Europa.
Fin dai primi viaggi all’estero, prima in Francia e poi in Germania, il giovane Noventa ha l’opportunità di confrontare la cultura italiana con quella straniera e di addentrarsi nella problematica del pensiero idealistico, quello autentico, dilacerante e angoscioso perchè basato sul crollo del mito dell’unità, sull’impossibilità di conoscere il reale, sulla necessità di autoprogettare l’esistenza in un mondo senza parametri logici.
Noventa capisce che Hegel, con la dialettica che tende a conciliare i contrari, mondo interiore e realtà oggettiva, tradisce quel pensiero idealistico che ha i presupposti nel romanticismo.
Già nel 1928, dopo il soggiorno in Francia, riflessioni di questa tendenza vanno a far parte della fucina di Noventa, ingombra anche di materiale costruito in modo artificiale piuttosto che scaturito da naturale vocazione. Così nel tradizionale schema del poema eroicomico Castogallo, scritto in collaborazione con Soldati, si inseriscono i primi strali fortemente polemici di Noventa che mostrano come è cambiato e si è definito il suo pensiero dopo le esperienze intellettuali avute all’estero. Gli “Eghellisti” trionfanti, da Gobetti a Debenedetti, sono “Generosi cherubini / Di rivolte e di rispetti” (2), cioè di pseudo rivolte e di falsi rispetti verso l’idealismo e Croce.
Gobetti usa la dialettica degli opposti di marca hegeliana per unire gli ideali liberali e quelli marxisti: “Piero mondi concepiva / Di ribelli senatori / E i meccanici finiva / Con le lime dei dottori // La lascivia del totale / Dai contrari gli faceva / Provvedere l’ideale / Di Tartuffi e lo spegneva” (3).
I primi strali della polemica di Noventa, imbevuti nel veleno dell’ironia, non sono rivolti soltanto a Gobetti e a Debenedetti, accusati di annaspare ancora nell’idealismo crociano senza saperlo rinnovare, ma anche allo stesso Croce e a Gentile che “non sanno rinunciare / Agli evviva e ai bassi troni / D’una plebe da rifare” (4).
Noventa poi ironizza su due rappresentanti della letteratura ufficiale, Luigi Pirandello, “perlintesta” che cogliendo cardi e gigli “quale sia il giglio e quale il cardo ignora” (5), e Ugo Ojetti, il “gran Coglietti”, irretito nelle confusioni ideologiche di Cose viste: “In quel vocabolario c’era tutto / E l’Ente e l’Accidente e il Velle e il Posse” (6).
Una plebe da rifare, l’urgenza di abolire i falsi valori: c’è un tono nicciano e superomistico in Noventa, con espressioni ancora approssimative rispetto all’originale.
I primi viaggi all’estero, oltre ad avere inciso in maniera determinante sulla formazione culturale di Noventa, hanno accresciuto le sue inquietudini e solitudini, hanno consolidato la sua indipendenza spirituale da tutto e da tutti.
Castogallo è l’espressione delle nuove convinzioni filosofiche e di uno stato d’animo continuamente travagliato. Come Zarathustra, Castogallo è diverso dagli altri umani sia nell’aspetto che nei comportamenti e nei pensieri.
Con un corpo “matto” tagliato da chissà quale “bizzarro sarto”, Castogallo è privo di pregiudizi e non conosce consolazioni, vola libero come le aquile e vive sulle vette con la sola compagnia degli animali, ama gli spazi senza limiti che fanno paura agli uomini, è un “vecchio, filosofo e folletto” capace di scrutare nei vuoti deliri, un satiro-poeta che scaglia i suoi strali contro tutte le fedi, religiose filosofiche e politiche, ad iniziare da quelle che sono proprie dell’hegelismo e della cultura americana.
Mentre si profilano questi desideri sinceri di crescita intellettuale, di lotta contro il potere dello Stato e della Chiesa, di ricerca difficile verso nuove possibilità filosofiche e artistiche, permangono alcuni velleitarismi propri dell’inesperienza, della giovane età, di un canto che a volte si appiattisce su scontate immagini letterarie: “Ecco virtù valor ozio arte viaggi / Che non sognò neanche Orlando il pio”(7).
Del resto negli anni torinesi, prima dei viaggi all’estero, un certo “dilettantismo giovanile”, come lui stesso lo definirà, segnava le prime esperienze culturali, i primi scritti.
Difendeva ad oltranza le proprie convinzioni con ostinazione, una componente del suo carattere già ribelle, deciso e irrequieto, che gli era costato l’espulsione dal Liceo “Foscarini”, l’arresto per essersi arruolato volontario senza avere l’età richiesta.
Il tentativo di mediare i suoi sentimenti mazziniani e interventisti, le disordinate e poco accademiche letture, in cui prediligeva i miti e il canto sereno come quello veneto, con le teorie avanzate del gruppo gobettiano, era ben presto vanificato.
Il suo pensiero restava confuso e clamorose ingenuità si riscontravano nella tesi di filosofia del diritto dal titolo “Ricerche sulla forma migliore di governo”, in cui mostrava un impeto civile dalle limitate coordinate culturali, una sicurezza di giudizio non sorretta da una lucida visione della storia.
Nelle pagine della tesi era efficace l’analisi che Noventa faceva del presente, dove mancavano ideali e senso dello Stato, dove trionfava il diritto privato e il positivismo.
Giudicava “buono” il governo piemontese e “pessimi e ripugnanti” i governi dei Giolitti e dei Mussolini, denunciava la demagogia fascista, le contraddizioni del Duce, le illegalità dei “tirannelli di ogni parte d’Italia”, la collusione del governo con un organismo clericale privo di autentico carattere religioso.
Non mancavano buone riflessioni come quelle sull’inafferrabilità della storia, anche per il genio, e sui rischi dell’obiettività e della subiettività in una realtà mai del tutto conoscibile.
Se era convincente nell’additare i limiti del nazionalismo, che non consente le competizioni necessarie per migliorare lo Stato, e le deficienze del socialismo che ha creato una fittizia concordia fra i cittadini, meno persuasivi apparivano i modelli che per Noventa avrebbero dovuto essere seguiti, l’“eroico socialismo” di Marx, l’esempio di Lenin che, ribadiva più volte, è “il più grande uomo di stato che oggi viva e che sia mai vissuto”.
La mancanza di una concreta unità cittadina è colpa dei liberali e dei comunisti - osservava Noventa suggestionato dalle idee gobettiane - perché i primi non si ispirano agli ideali del Risorgimento e gli altri all’opera marxista e alla prassi leninista. E’ inevitabile dunque la rivoluzione con le masse “guidata da una minoranza preparata a esercitare, come in Russia, il dominio con la più fiera prudenza”.
Dopo aver detto di non appartenere ai falsi difensori della libertà, ma a chi si ispira “agli scrittori idealisti italiani, alla dottrina marxista, alla prassi leninista” (8), indicava il suo concetto di libertà, in cui era implicita la violenza: “non possiamo essere contrari a un governo solo perchè esso usa la violenza, ché anzi questa può essere destinata a rimuovere o distruggere gli ostacoli che si oppongono al nostro sviluppo spirituale, e di più noi siamo disposti a usarne nella pratica italiana prima e dopo la costituzione dell’ordine nuovo”(9).
Il giovane Noventa auspicava una dittatura proletaria, dal carattere aristocratico e anticlericale, e nell’affermare ciò era già tanto che si rendesse conto di essere in questo affine ai governanti dell’attuale regime. Erano fragili e confuse le teorie di Noventa che distingueva fra il positivismo imperante e il tanto apprezzato “idealismo-storicista” di Hegel, e al tempo stesso invocava, oltre i limiti del materialismo, la necessità di principi spirituali.
La crescita intellettuale di Noventa, finora in possesso di una cultura disordinata (10), avveniva dunque con i viaggi all’estero, con il contatto di tradizioni di pensiero diverse.
Comprende subito i forti limiti della propria formazione culturale, capisce che soltanto da un confronto con quell’ampio contesto possono essere avviate un’analisi e una riforma della cultura italiana. Lo preoccupano ora certe ideologie responsabili dei cambiamenti politici in senso autoritario che si vanno attuando nei vari Paesi europei. Si entusiasma per quelle filosofie e scienze che con il loro relativismo mettono in crisi ogni fiducia nella ragione e prospettano nuovi valori. Dal 1926 al 1935 i viaggi di Noventa all’estero sono continui, i soggiorni lunghi, a Parigi dove tra gli altri incontra Jacques Maritain e frequenta i fratelli Rosselli, in Germania, a Vienna, Barcellona, Londra, Losanna.
Se nel Castogallo, su cui Noventa aveva lavorato con Soldati in tempi discontinui dal 1926 al 1929, si intravedevano le prime tracce di una formazione culturale in via di crescita e libera da ogni provincialismo, dopo un decennio di soggiorni all’estero è maturata una nuova concezione ideologica che Noventa è ben consapevole di possedere e ben deciso a esprimere.
Così, dopo aver rifiutato di scrivere le poesie in dialetto che fin dal 1929 recitava agli amici, può ora, agli inizi del 1934, sempre a Parigi, iniziare a lavorare alla sua prima vera opera, che è un atto di accusa al provincialismo di tutta la cultura italiana del Novecento.
Ha già completato i primi capitoli dell’opera che pensa di intitolare significativamente Principio di una scienza nuova quando, nell’estate del 1934, a Fumetto, conosce Alberto Carocci che gli chiede di collaborare a “Solaria”.
E’ un impegno importante per Noventa che ha bisogno di essere cosciente della propria condizione di scrittore, di poter ritenere la scrittura uno scopo di vita.
Prima di pubblicare su “Solaria” i capitoli del libro che va scrivendo, preferisce anticipare alcuni concetti della sua nuova visione dell’arte, che sa essere fortemente innovatori anche per una rivista attenta alla cultura europea.
Così, per il suo primo articolo su “Solaria”, “A proposito di un traduttore di Heine”, coglie l’occasione della pubblicazione di un libro di Mario Andreis, dal titolo Cinquanta Lieder di Heine ricantati in versi veneti, per rivendicare l’importanza del dialetto in letteratura e per evidenziare lo “snobismo e i limiti della cultura italiana. Mentre il dialetto è messo al bando dallo Stato fascista ed è disprezzato dagli scrittori più letti in questi anni fra le due guerre, Noventa afferma che il dialetto è più espressivo e dinamico nel rivoluzionare le forme dell’arte rispetto al lessico letterario ufficiale, un italiano ormai usurato, intriso di retorica, con una fissità imposta come regola.
Noventa riporta l’affermazione di Mario Andreis che, nella prefazione alle sue traduzioni, dice di aver tradotto i Lieder col dialetto perché, mentre non trovava parole italiane così musicali come quelle di Heine, ha sentito risuonare spontaneo il ritmo dialettale.
Il volume di Andreis, sottolinea Noventa, è “un piccolo schiaffo sul viso di quei critici e di quei vatini che credono alla morte dei dialetti insieme alla lunga vita e all’italianità del gergo di moda nei giornali nelle osterie e nelle piazze”(11). Tradurre in italiano sarebbe stato per Andreis “andare contro natura”.
E’ comunque eccessivo dire, come fa Noventa, che di queste parole di Andreis “devono sentirsene offesi quegli scrittori italiani che avrebbero potuto con universale vantaggio esprimersi in triestino in genovese” (12). E’ il suo modo di polemizzare con quelli scrittori che vedeva rappresentare malamente la letteratura italiana ufficiale.
La polemica di Noventa si estende poi alla critica letteraria, a chi tentando un’analisi dell’opera di Heine, ha mostrato i limiti della propria capacità di indagine, da Carducci a Croce. Vuol fare emergere quello che chiama lo “snobismo” dei nostri scrittori e critici, i quali nel loro provincialismo tendono soltanto ad imitare invece di capire.
Nell’articolo inoltre Noventa coniuga letteratura e impegno civile, ed è il primo a farlo su “Solaria”, evidenziando la passione civile di Heine, negata da Croce e ben lontana da certi retorici versi di D’Annunzio e Carducci.
Così facendo Noventa va incontro ai nuovi intendimenti di Carocci, che voleva un’ apertura della rivista alla politica, ma provoca una dura reazione dei letterati fiorentini, di cui fa giustizia il giudizio di Nello Rosselli che esprime ammirazione per la capacità di Noventa nel passare dalla letteratura alle questioni di costume (13).
Nelle osservazioni di Noventa è esplicita l’accusa ai letterati italiani, fascisti e antifascisti, che non sanno cogliere la connessione fra etica e impegno civile.
Secondo Noventa quelli di Heine sono versi di vero amore per la libertà e per la patria, di orgoglio dei valori morali, che nella nostra letteratura richiamano soltanto il dantesco incontro con Sordello.
Se Noventa con questo articolo pensava di trovare dei compagni di strada per le più scoscese vette dei suoi Principi, capisce subito di essere solo e di avere tutti contro.
Ciò non lo scoraggia affatto, anzi accresce il suo orgoglio e il suo desiderio di far conoscere una scienza nuova che presuppone il superamento di certe false concezioni di pensiero e il delinearsi di nuovi valori.
Pubblica subito in “Solaria” i primi capitoli del Principio di una scienza nuova, in cui avvia una minuziosa analisi dei vari aspetti del pensiero idealistico, e al tempo stesso prospetta ciò che lo deve sostituire.
Contro l’immanentismo idealistico, che tra l’altro ha generato il nazionalismo, e una pseudo-cultura provinciale, Noventa vorrebbe “un primato civile dell’Italia nell’universo e per l’universo”, da attuarsi con una scienza nuova in costante dialogo con “gli stranieri più intelligenti e più colti” (14), un nuovo classicismo sull’esempio di quello del Leopardi, un cattolicesimo trascendente, l’universalismo.
Ad additare questa nuova via sono i nostri grandi poeti del passato, soprattutto Dante e Petrarca, e certi scrittori stranieri, mentre i rappresentanti della nostra cultura hanno esaurito ogni impulso alla ricerca perché nell’idealismo hegeliano hanno già trovato risolte problematiche e controversie.
Il provincialismo della nostra letteratura che si ammanta dell’idealismo e l’arroccamento su posizioni che non lasciano margine ai dubbi e ai liberi arbitrî non hanno più senso per Noventa, ben consapevole che in campo europeo, così come nel naturale svolgersi del pensiero italiano che filtra dal Leopardi, è stato affossato già da tempo il materialismo storico e dialettico, sono venute meno le certezze logiche.
Sono dunque anacronistici e residui di una visione culturale ormai tramontata gli assolutismi di Croce e Gentile, le “guide spirituali” da superare, le determinazioni di Saba, Montale, Ungaretti, dei quali commenta “alcuni dei più brutti versi” per dimostrare che sono “tre versificatori, e non tre poeti” (15).
Noventa usa un tono volutamente violento perché sa di contrapporsi ad un pensiero fortemente radicato (16), ormai imposto come sistema che non concede spazi alle innovazioni e agli sperimentalismi richiesti dalla nuova visione della letteratura, da una nuova scienza priva di unità organica. Del resto Noventa reagisce alle intransigenze di chi come Croce difende la storicità bollando gli antistoricisti come “veri atei e irreligiosi”, “energumeni del nuovo o vacui restauratori dell’antico” (17).
Noventa polemizza non soltanto con poeti e critici che volutamente perpetuano i principi dell’estetica crociana, ma anche con coloro che si ritengono anticrociani o acrociani e poi non sanno liberarsi dalle pastoie idealistiche.
L’elenco che Noventa ripete più volte compatto perché vuole evidenziare una comune caratteristica, la fiducia nell’idealismo, di scrittori e critici per altro ben diversi tra loro, è composto da Cecchi, Papini, Bacchelli, Baldini, Soffici, Palazzeschi, Panzini, Bontempelli, Carlini, Casotti, Caramella, Sapegno, De Ruggiero, Prezzolini.
Nel Principio di una scienza nuova, non privo di lungaggini e di troppo insistite metafore (18), sono indicati gli aspetti più deleteri dell’idealismo, la fiducia nella Storia che tutto giustifica, nella concomitanza di causa-effetto prodotta dalla coscienza universale, il virtuismo e la retorica, la credenza nella perfezione umana, la divisione netta tra il bene e il male, la religione ridotta a nostalgia, l’attesa di un luminoso avvenire e del progresso.
La riconciliazione hegeliana delle idee e delle contraddizioni, la sintesi degli opposti, l’unità spirituale postulata da Bergson (19) costituiscono la base di questi principî di cui in Italia sono i portabandiera De Sanctis, Croce e Gentile. Si legittimano così le sovrastrutture come la famiglia, la classe, la patria. Si giustifica soprattutto il nazionalismo in un momento storico che vede l’Italia difendersi dagli altri Stati europei.
Il “vizio diabolico” della pseudocultura idealistica consiste - scrive Noventa - nella “identificazione di Dio e mondo, e di Dio e uomo, di Dio e Tizio, di soggetto e oggetto, di anima e corpo, di spirito e materia” (20).
Distruggere gli errori di Croce, Gentile e della Scuola torinese è fondamentale per avviare una scienza nuova che deve unire cultura ed impegno politico sulle basi etiche del classicismo e del cattolicesimo.
Contro “i liberalini, i socialistini, i comunistini, sempre pronti a dichiarare astrazioni e teorie non solo la filosofia e la poesia”, Noventa auspica “l’azione d’ un uomo il quale sappia quanto valgono i grandi filosofi e i grandi poeti” (21), un superamento morale e civile per gli umili, per i non corrotti dalle vecchie e false concezioni di pensiero, i semplici che senza pregiudizi possiedono le energie per cambiare la realtà.
Di grande rilievo critico sono, nel Principio, le pagine in cui Noventa, confutando le teorie crociane di poesia-non poesia ed avviando quella che considera la premessa ad una nuova storia del pensiero, fa alcune riflessioni su Leopardi, sull’intensità dei suoi sentimenti, come l’odio per la Chiesa, l’amore per la libertà, l’idea della morte, così profondi che in confronto risultano dilettanteschi gli stessi sentimenti espressi da Foscolo, Carducci, D’Annunzio. Leopardi e Manzoni appartengono a due culture diverse. Se il canto del semplice pastore è l’esempio della nuova scienza sovrastorica e autoprogettuale, le esaltazioni manzoniane per le conquiste dei barbari e degli eroi che fanno la Storia, e che non a caso tanto piacciono a Croce, rientrano appieno nello pseudo-idealismo.
Noventa osserva: “La disperazione e lo scetticismo del pastore morente sono d’una specie più nobile che la disperazione e lo scetticismo dell’Adelchi morente” (22). Laddove Manzoni è incerto su chi ammirare tra i vasi di ferro che cadono dal cielo e i vasi di ferro che esprime la terra, Leopardi sa ben riconoscere dove sta il valore vero, la virtù, la modestia e la giustizia.
Con la sua ideologia Noventa cambia l’orientamento di “Solaria” e, all’interno di questa nuova fase in cui le teorie hanno più spazio della produzione letteraria, porta argomentazioni più avanzate rispetto ad altre presenti sulla rivista che, come quelle di Nicola Chiaromonte (23), sono ancora imbrigliate in vecchi pregiudizi culturali.
Come è facilmente prevedibile, gli articoli pubblicati su “Solaria” gli attirano molte critiche. Noventa paga le proprie convinzioni, l’estremismo di un pensiero inattuale, la determinazione a non scendere a compromessi con una società corrotta, ne subisce le conseguenze non soltanto con l’emarginazione dagli ambienti letterari, ma anche con diversi arresti, come quello per sospetto antifascismo nel maggio del 1935. Non sono però i venticinque giorni di detenzione a fiaccare i forti sentimenti di giustizia ben saldi nell’animo di Noventa.
Alcuni mesi dopo, ancora in collaborazione con Mario Soldati, scrive un soggetto cinematografico dalla trama neorealistica, di poca rilevanza letteraria ma di grande senso civico, in Noventa sempre unito al desiderio di chiarezza e onestà culturale.
La lotta degli schiavi di confine, che insorgono contro i provvedimenti doganali sul commercio delle marasche, assume negli intenti di Noventa e Soldati il carattere di una polemica contro chi ha deciso di togliere Zara alla Jugoslavia.
Nell’agosto del 1936 Noventa è colpito dal primo lutto in famiglia, la morte del padre, Antonio Ca’ Zorzi.
Finora le maggiori sofferenze le aveva provate quando, a diciassette anni, aveva trascorso una notte nella stessa prigione di un condannato a morte, e poi durante le esperienze di guerra, e ancora quando a Londra nel 1933 gli era stato negato di assistere alla nascita del primo figlio Alberto, avuto dal matrimonio con Franca Reynaud.
Dopo la morte del padre ritorna a Firenze e inizia a dirigere con Carocci la “Riforma Letteraria”.
Nel primo numero della rivista pubblica la sua prima poesia con lo pseudonimo Emilio Sarpi e aggiunge “nato a Lampol (Venezia) il 31 marzo 1898, morto il 19 ottobre 1933”. Quest’ultima è la data del violento dolore provato a Londra che ha segnato anche un periodo di crisi intellettuale, finito col concepimento del Principio di una scienza nuova.
Dalle ceneri di Emilio Sarpi, simbolo del dilettantismo giovanile, era nato Giacomo Noventa, ben consapevole dell’importanza delle sue concezioni teoriche che ha già espresso su “Solaria” e che vuole approfondire e sviluppare sulla “Riforma Letteraria”.
Il programma della rivista, enunciato nel primo numero, è infatti una sintesi di alcuni concetti del Principio già esposti nei primi capitoli pubbicati su “Solaria” e in quelli che, insieme ad altri articoli, si appresta ad inserire nelle pagine della “Riforma Letteraria”.
Il nuovo stato d’animo di chi dirige la rivista, ma in effetti soprattutto di Noventa che sembra condizionare Carocci, è quello di chi è cosciente che, soprattutto in una fase storica di estrema e totale crisi, siano sempre più urgenti e necessarie una riforma di tutti i campi dello scibile iniziando dalla letteratura e una scienza nuova per riaffermare il primato morale e civile degli italiani.
E’ nel nome dcl Leopardi, citato attraverso De Sanctis, che Noventa richiama ad una letteratura universale e completa di ogni disciplina, ad una visione delle cose priva di preconcetti, ad una eticità capace di trasformare la nostra vita privata e quella civile.
La formulazione del programma è il primo di una serie di articoli, i “Manifesti del classicismo”, in cui la polemica non vuol essere mai disgiunta dalle nuove proposte, cioè deve “avere il significato d’una riforma” (24).
Dopo aver detto ai “Cecchi, Papini, De Ruggiero e via” , con le parole di Burckhardt, che “Grandezza è quello che voi non siete”, Noventa si appella all’orgoglio di chi vuol ridisegnare la letteratura senza pregiudizi e pretesti.
Non avere pregiudizi vuol dire innanzitutto abbattere quelli esistenti, come il pregiudizio che è stato inculcato dalle pagine della Storia della letteratura italiana di De Sanctis, la tendenza cioè a ritenere che al progresso civile di un popolo debba corrispondere il progresso poetico e che alla decadenza civile debba corrispondere la decadenza poetica. Con questo pregiudizio che rientra nel principio crociano dell’unità dello spirito, non si può intendere, per Noventa, come l’Italia dal Leopardi in poi abbia avuto un grande progresso civile e viceversa un grande regresso poetico.
Un tale pregiudizio porta a valutare la vecchia letteratura come la sola possibile e autorevole. E’ invece per Noventa una letteratura di casta che ha usato i parametri e le formule dell’idealismo storicista, rispolverando uno pseudo-classicismo e un cattolicesimo da museo, e che in base ai dogmi dell’uguaglianza delle anime e della perfezione originale dell’individuo, auspica le sorti magnifiche e progressive.
Figlia dell’ottimismo dialettico di De Sanctis e Spaventa, di Croce e Gentile, del pragmantismo di Gobetti, delle scienze positive, del razionalismo dei matematici e dell’empirismo dei naturalisti, la vecchia letteratura deve essere sostituita da una letteratura che sappia tener conto delle molteplici forme spirituali dell’individuo imperfetto e in eterna lotta fra le forze interiori del bene e del male.
L’ideale letterario che Noventa ha in mente lo vede indicato da Pancrazi nelle pagine di Scrittori d’oggi, laddove contro la boria dei grandi si fa un’apologia degli scrittori minori, degli umili che, non compromessi con gli ambienti del consenso e del potere culturale, sono più capaci di recepire la grandezza del passato e sanno esprimere la civiltà più vera della nazione.
Nel contesto letterario tracciato da Pancrazi “il nome del Carducci stride” (25), osserva Noventa, che preferisce accomunarlo a coloro contro i quali nei Manifesti della “Riforma letteraria” continua a non risparmiare critiche, Croce e Gentile, simili nella loro logica speculativa e dialettica, Gobetti “un crociano assoluto” e “prosecutore ideale” (26), tutti espressione di un mondo di accademici e di mezzi borghesi.
Per Noventa le parole alterate dal pensiero pseudo-idealista, come individuo e società, libertà ed autorità, uomo e Dio, hanno iniziato a riprendere il giusto significato con io “strazio” della guerra e del dopoguerra, e così nei reduci si ritrovano le virtù classiche e cattoliche.
Parole e concetti sono dunque da ricondurre al loro antico valore, da riformare come i calzoni flosci e trasandati di una statua di Beethoven, ricostruiti dagli abitanti di una cittadina americana.
E’ da riconsiderare ciò che ha determinato le incongruenze del pensiero moderno, gli errori comuni di Spaventa e De Sanctis, di Croce e Gentile: “Il loro misticismo dell’intelletto e dell’azione, il loro alterno brutalizzare e divinizzare l’individuo, le classi, la patria, l’umanità, il loro alterno brutalizzare e raddoppiare la divinità di Dio, sottomettendolo all’individuo e facendone un Dio che trascende le anime e aggiunge a se stesso il risultato di tutte le anime naturalizzate e rispiritualizzate” (27).
Su questi concetti Noventa insiste nel lungo articolo, dal titolo “I calzoni di Beethoven”, pubblicato sulla “Rivista letteraria” nel 1937, con l’intento di chiarire alcuni suoi convincimenti già espressi sul Principio di una scienza nuova e sui Manifesti
Nell’articolo in forma di dialogo, Debenedetti, che ha perduto le antiche certezze del Circolo torinese, e Soldati, portavoce di Noventa, ridiscutono, in un’ottica critica contro i sistemi convergenti di Croce e Gentile (28), i rapporti fra le varie arti, le attività di pensiero, la pratica e la teoria, le gerarchie e le coincidenze d’anime e caratteri.
Noventa, con le parole di Soldati, ribadisce un concetto che ritiene fondamentale, quello della diversificazione delle anime come si desume dalle diverse grandezze spirituali, non ammesse dall’idealismo che tende invece, nelle sue contraddizioni, a unificare le anime, ad oggettivarle per vederle riflesse in un unico universale,in una divinità (29).
Contro l’idea moderna dell’uomo nata con Rousseau, che ha rivestito di sentimento religioso l’ottimismo cartesiano rendendo mitica la condizione umana nel momento in cui si rispecchia nella divinità, contro la scienza positiva, l’evoluzionismo assoluto che si identifica con l’idea della natura umana, Noventa richiama i valori del classicismo e del cattolicesimo riportando alcuni brani tratti da testi di Maritain (30).
Noventa è d’accordo con Maritain sulla necessità di un ritorno a quei principi cattolici presenti anche nel protestantesimo, all’essenza spirituale delle parole e delle formule cattoliche. Nella visione trascendentale di anime dilacerate che aspirano ad un’Anima superiore è determinante l’impegno individuale. I nuovi valori spirituali e culturali devono scaturire dall’attività creatrice dell’uomo che, consapevole dei limiti della conoscenza imperfetta (31), autoprogetta continuamente le scelte intellettuali e morali, ordinando il caos.
Nelle ultime pagine del dialogo fra i due letterati, Noventa ribadisce il suo ruolo di teorico della “Riforma letteraria” nel condannare con un severo metodo critico la casta letteraria, di tutti i movimenti e di tutte le riviste dalla “Voce” in poi, in cui si è protratto l’idealismo crociano, una casta dogmatica incapace di creare una nuova letteratura.
Più che giuste le accuse di Noventa che ha inoltre visto quali sono state le conseguenze del crocianesimo da riporto, con voci spesso travisate e divenute messaggi immediati sulle riviste, la convinzione dei rondisti come degli storicisti del “Baretti” di poter cambiare la realtà con l’azione, il tentativo da parte di alcuni solariani di conciliare il vecchio storicismo idealista con un’interpretazione trascendentale cattolica (32).
Una lettura autodidatta delle teorie crociane ha portato l’ermetismo a svuotare le parole dei loro autentici significati e a fare un’apologia degli istinti.
Noventa riafferma la propria diversità di valore e di carattere rispetto a questi “piccoli idealisti”, che lo hanno sempre emarginato non potendo controbattere opinioni per loro incomprensibili.
E’ comunque sempre esplicita la speranza che la sua critica dei valori non sia soltanto distruttiva: l’obiettivo della polemica resta quello di risvegliare in tutti le forze intellettive e morali necessarie per creare una nuova civiltà, una nuova letteratura.
In un articolo dal titolo I paroll d’on lenguagg, di risposta all’accusa che gli viene mossa dalla rivista cattolica “Il Frontespizio” per il troppo spazio occupato sulla “Riforma Letteraria” dalle sue teorie in forma di dialogo, Noventa si appella alla necessità di dover fare chiarezza con coloro che lo emarginano riducendo il valore dei suoi scritti al senso deteriore del dialetto.
Il consiglio ricevuto dalla rivista fiorentina di “rientrare nelle spoglie del fu poeta Sarpi Emilio” (33), di limitarsi cioè a poetare in dialetto, è lo stesso — osserva Noventa — che gli hanno dato tutti coloro, dai cattolici ai protestanti, agli ebrei, che non riescono a comprendere una ricerca di possibili riferimenti condotta senza verità precostituite e sperimentata anche in un linguaggio dialettale diventato lingua poetica (34).
E’ rivendicata inoltre la libertà da una Chiesa che pretende la conversione, dal modernismo cattolico, dal clericalismo di sacrestia.
A Piero Bargellini, che dalle pagine de “Il Frontespizio” lo richiama al vero significato della conversione, sull’esempio di Charles Péguy, a rientrare appieno nelle leggi della Chiesa, e a cercare salvezza nella società ecclesiastica, Noventa risponde con le parole di Vincenzo Gioberti che distingue il vero cattolicesimo da quello dei “gesuiti”, ossia per Noventa coloro che hanno come ideale il cattolicesimo anticonformista di Trento. Noventa ricorda l’universalismo cattolico medioevale, senza divisioni, quel “cattolicesimo di cui Dante è il poeta”.
Questa concezione del cattolicesimo, che implica la sua opinione sul razzismo portandolo ad accusare anche gli ebrei di intolleranza anticattolica e pagana, gli mette contro cattolici e protestanti, semiti ed antisemiti.
Nel sostenere la propria diversità dagli scrittori ortodossi come Bargellini e Papini e dai critici di stampo crociano, Noventa porta il “subcrociano” Karl Vossler come esempio di vecchio idealismo e polemizza con la sua interpretazione dei simboli e dello scetticismo nella poesia del Leopardi.
A tale scetticismo, che è inteso come religione, e non esclude progressioni, Noventa contrappone quello che nella sua visione del pensiero leopardiano considera “lo scetticismo verso il proprio scetticismo”, “la disperazione di non poter credere nel trionfo eterno (o assoluto) di ciò che gli appare come bellezza o verità”, “la disperazione di non poter credere in ciò che lo appassiona fortemente” (35).
Sempre più isolato, Noventa prosegue la sua appassionata polemica con coerenza e rigore sulle pagine della “Riforma letteraria”, contro i presupposti ideologici che hanno condizionato l’idealismo italiano, impedendo qualsiasi tipo di rinnovamento:
il plusvalore cattolico personale e di setta che i capi del Risorgimento si sono attribuiti creando una netta separazione con il popolo considerato come “materia”(36), le identificazioni, proprie dell’ebraismo, fra Dio e mondo, spirito e materia, cultura e forza (37), il mito, di tipo soreliano, come rispetto alla vuotezza di una teoria, un concetto di mito che impedisce a Sorel una critica sostanziale alle teorie di Marx (38).
La “Riforma Letteraria” è poco letta, mal capita soprattutto dove viene edita, nella Firenze capitale della cultura clerical -fascista, improntata al determinismo e al pragmatismo.
Letterati di casta arroganti, abituati a confrontarsi soltanto con chi ha idee simili alle loro, mal sopportano le critiche di Noventa, lo considerano un dilettante, lo calunniano (39).
Restano comunque maestri di loro stessi mentre Noventa comincia ad avere una cerchia di amici e di giovani che trovano nelle sue teorie un nuovo insegnamento, le direttive per un rinnovamento culturale e civile.
A Noventa non basta. Vorrebbe che altri si mostrassero meno insensibili alla sua battaglia che se resta isolata rischia di scalfire appena la corazza in cui si pavoneggia la cultura ufficiale, vorrebbe che le sue pagine fossero rilette e considerate nella duplice valenza della polemica distruttrice e della proposta riformista.
Nei suoi articoli sugli ultimi numeri della “Riforma Letteraria” è sempre più esplicita l’amarezza per non ricevere riscontri e consensi, ma appare altrettanto chiaro che lui stesso non li cerca, così come sembra ignorare gli autori che vanno sviluppando orientamenti culturali consoni al suo.
Su “Solaria”, per esempio, con un’apertura al contesto europeo convergevano gli sperimentalismi di Gadda, i nuovi metodi critici di Contini, le esperienze letterarie di alcuni giovani che, come Giuseppe Aventi e Umberto Morra, sono andati oltre l’idealismo di stampo crociano, la cultura storicista ufficiale.
Nell’ottobre del 1939 Noventa preferisce lasciare Firenze e tenta di riorganizzare la “Riforma Letteraria” a Milano, dove viene arrestato per corruzione politica dei giovani, accusato di nascondere l’attività politica dietro gli insegnamenti letterari. La polizia fascista sopprime la rivista e proibisce a Noventa, a cui è stata revocata la carcerazione, di abitare nelle città con sedi universitarie. Continua a sorvegliarlo nei vari spostamenti, a Viareggio, a Milano dopo la revoca del divieto, e addirittura quando è sotto le armi a Piombino, a Jesolo, a Firenze.
Alle sue proteste per questa sorveglianza è congedato, in attesa di chiarimento. Richiesto del curriculum vitae risponde con un dattiloscritto in cui, ripercorrendo le sue vicende biografiche e l’attività svolta sulla “Riforma Letteraria”, fa alcune osservazioni certamente di poca importanza per il Distretto Militare a cui sono indirizzate ma di rilievo per conoscere meglio la sua personalità.
Degli anni Venti ricorda lo sforzo per colmare i vuoti della sua cultura disordinata gettandosi su tutti i libri e in tutte le conversazioni, il suo carattere “timidissimo e orgogliosissimo a un tempo” che lo portava a respingere tutti e ad essere respinto da tutti, il suo disaccordo con i giovani fascisti e con gli antifascisti gobettiani.
Noventa vuol mettere ben in evidenza la sua indipendenza spirituale, cresciuta fra inquietudini e solitudini, che gli ha fatto avversare ogni conservatorismo e filisteismo in politica (ricorda di aver ridato per questo la tessera del Partito Liberale otto giorni dopo averla presa), e ogni provincialismo negli studi così da cercare nei paesi europei nuovi impulsi culturali.
Nel prediligere con la memoria i tempi felici passati all’estero rivela un dato importante per quelle che saranno poi le sue scelte teoriche e i caratteri della sua opera, cioè l’acquisizione in Germania della lingua, della poesia e della filosofia, avvenuta con più calma e con più metodo che in Francia.
In Germania preferiva abitare le città universitarie più ricche di fermenti culturali, frequentava le università, soprattutto Heidelberg dove aveva un amico lettore e Marburg an der Lahn dove si era iscritto; componeva alcune poesie in tedesco; si intratteneva fra la gente e praticava i circoli scacchistici.
La sua biografia è contrassegnata soprattutto dallo studio intenso, dalle lunghe ore passate a scrivere, “sono un forzato del tavolino” (40), a meditare e a riscrivere il Principio di una scienza nuova quando è arrestato quasi impazzisce al pensiero di dover interrompere il suo lavoro, “il terribile sforzo intellettuale” (41).
Dopo aver rimarcato la sua totale solitudine e l’ostilità di tutti verso le sue teorie, riassume in una frase il curriculum vitae: “tutta la mia vita è nei libri che ho scritto e pubblicato” (42).

NOTE

1) L’opera completa è stata pubblicata dall’editore Marsilio dal 1986 al 1991 in cinque volumi curati da Franco Manfriani.
2) Opere V, p.50.


3) ““ p. 50.
4) “ “p. 52.
5) “ “p. 44.
6) “ “p. 45, e ancora nei versi delle pagine 46 e 47.
7) “ “p. 56.

8) ““p. 18.

9) ““pp. 20,21.
10) Come riconoscerà lui stesso in La mia vita dal 1920 (Opere, III, pp. 39,40).
11) Vol. V, p. 3.
12) Vol. V, p. 4.
13) In una lettera di Rosselli a Carocci, in Vol. II, p. LIV.
14) Vol. II, p. 65.
15) Nel primo capitolo dal titolo emblematico “Poesia e non poesia”, pp. 68,69.
16) “Lo stato d’animo di tutti gli italiani fino ad oggi è quello di cui l’idealismo crociano e
gentiliano è l’ espressione letteraria più energica e più alta”, Vol. II, p. 148.
17) B. Croce, Punti di orientamento della filosofia moderna. Antistoricismo, Bari, Laterza

1931, pp. 34, 35.
18) Per Manfriani il “modulo della ripetizione” è comune ai pensatori solitari, come per
esempio Nietzsche.
19) Scrive Garin che nell’Europa tra il 1925 e il 1935 il bergsonismo “diventa un simbolo;
rifiutarlo significa una scelta diversa, un modo diverso di intendere la filosofia, e il suo
rapporto con la politica, con l’azione. Significa aprirsi a nuove esperienze, agli
esistenzialismi, fra Kierkegaard e Nietzsche, per approdare, domani, a Heidegger…”, “Il
dibattito delle idee tra il 1925 e il 1935” in AA.VV., Gli anni di Solaria, Verona, B &Gi
1985, pp. 21 – 32.
20) Vol. II, p. 275.
21) ““ p. 239.
22) ““ p. 217.

23) Chiaromonte, tra l’altro, scrive: “E’ precisamente l’illusione necessaria della volontà
di potenza, quella di relizzare l’Idea: Nietzsche non è lontano da Hegel. ( . . . ) sarà
sempre falso ridurre Faust ad eroe dello smisurato. Faust cerca propriamente il concreto”,
in “Solaria”, n. 1, 1933.
24) Nel terzo dei “Manifesti” dal titolo “Una letteratura di pretesti”, Vol II, p. 285.
25) Vol. II, p.361.
26) “ “ p.335.
27) “ “ p.449.
28) “Dalla libertà di Croce non può nascere che l’autorità di Gentile”, Vol. II, p.443.

29) “Servendosi di Dio magari con pseudonimi come ‘ironia ariostesca” e “coscienza
universale”, Vol. II, pp. 446.
30) I testi sono Réflexions sur l’intelligence et sur sa vie propre, Trois Réformateurs: Luther-
Descartes - Rousseau e Introduction générale à la philosophie.

31) Noventa riporta Maritain che cita Kant: “Ciò che è non è conoscibile, ciò che è
conosciuto è un’apparenza”, Vol. II, p. 460.

32) Per le riviste cfr. G. Luti, La letteratura nel ventennio fascista, Firenze, La Nuova Italia
1972, ed. accresciuta rispetto a quella del 1966, Bari, Laterza.
33) “Il Frontespizio”, gen. 1938, p. 25.
34) Le possibilità letterarie del dialetto dipendono da chi lo usa. Noventa cita la poesia di
Carlo Porta da cui ha tratto il titolo dell’articolo: “I paroll d’on lenguagg, car sur

Gorell, / Hin ona tavolozza de color, / Che ponn fà el quader brutt e el ponn fà bell, /
Segond la maestrìa del pittor / …”.
35) Vol. II, p. 539.
36) “L’errore del Risorgimento”, Vol. II, pp.547-566.
37) “Gide, Maritain e il concetto di razza”, Vol. II, pp. 567-572.
38) “Origine della dottrina dei miti”, Vol. II, pp. 573-583.
39) Vittorini, uno scrittore stimato da Noventa, ricorderà più tardi: “Fui così solariano, e
solariano era una parola che, negli ambienti letterari di allora, significava antifascista,
europeista, universalista, antitradizionalista… Giovanni Papini ci ingiuriava da un lato, e
Farinacci dall’altro. Ci chiamavano anche sporchi giudei per l’ospitalità che si dava a
scrittori di religione ebraica e per il bene che si diceva di Kafka e Joyce. E ci chiamavano
sciacalli. Ci chiamavano iene. Ci chiamavano affossatori”, Diario in pubblico, Milano,
Bompiani 1957, pp. 173,174.

42) La mia vita dal 1920, Vol. III, p. 20.
41) “ “ p. 21.
42) “ “ p. 22.

Francesco Piga

Francesco Piga, nato a Porto Azzurro (Isola d’Ellba) nel 1951, si è laureato alla Facoltà di Lettere e Filosofia di Firenze. Ha pubblicato i volumi Il mito del superuomo in Nietzsche e D’annunzio (Vallecchi, 1979) e La poesia dialettale del Novecento (Piccin Nuova Libraria, 1991). Ha scritto saggi critici su vari autori tra i quali Nievo, Fogazzaro, Savinio, Zanzotto.