INAFFERABILE LINGUA-VALANGUA DELL’HOMO ALPINUSL’INARRESTABILE LINGUA-VALANGA DELL’HOMO ALPINUS

Sullo scrivere etico-etnico, i rapporti di forza tra le lingue e la traduzione del minore

“Il faut retrouver sa terre”
Edgar Morin

1. Verso una Habitatdichtung, una poesia dell’habitat

Tra le varie “gatte da pelare” che di continuo si presentano a un traduttore, felinamente sfuggenti si dimostrano i cosiddetti realia, quelle parole denominanti referenti esistenti soltanto nella lingua dalla quale si traduce. Ora, P indubbio che qualsiasi essere umano faccia una qualche esperienza di “patria”, terra o luogo natii, ovvero della sua assenza, sarebbe pertanto improprio classificare tra i realia la parola tedesca Heimat, la cui radice heim (da cui anche l’inglese home) si perde nella notte dei tempi germanici (*haima, * haimi) o indoeuropei, per chi ancora ci crede, (*kei-, giacere, trovarsi, stabilirsi). Eppure, come qualsiasi traduttore dal tedesco “sente”, nel riversare tale termine in italiano con “patria”, “terra natia” (“matria”?), spesso qualcosa va perduto. Pazienza, si dirB, del resto questo fa parte del gioco della traduzione legata a processi di negoziazione, “la negoziazione essendo appunto un processo in base al quale, per ottenere qualcosa, si rinuncia a qualcosa d’altro – e alla fine le parti in gioco dovrebbero uscirne con un senso di ragionevole e reciproca soddisfazione alla luce dell’aureo principio per cui non si pub avere tutto” (Eco 2003: 18).

Tale processo di negoziazione prevede il corollario della compensazione che, tuttavia, nel caso dei realia “secchi” non funziona. L’esperienza ci dice che per tradurre parole che denominano referenti inesistenti nella realtB della lingua d’arrivo tre sono le possibilitB che si offrono al traduttore: mantenere inalterata la parola (con eventuale nota di accompagnamento); operare un calco (a volte incomprensibile o con effetti comici); individuare un referente pij o meno affine nella lingua d’arrivo (Rega 2001: 168). Perché, ci si chiede, nel caso del termine in questione pur trovandoci in presenza di “qualcosa” esperita universalmente, e quindi di non esclusiva pertinenza della lingua tedesca, il traduttore si sente attratto dalle soluzioni testé prospettate (in particolare dalla prima) per tanti realia? Non si darB il caso che ci troviamo di fronte a una parola denominante un referente “storico-ideologico”, “mentale” e “sentimentale” per cosX dire, ma non per questo meno “oggettivo e concreto” per la storia di singoli e popoli, e in questa misura esistente soltanto in quella lingua-cultura?

Tali questioni devono essere tenute presenti nel momento in cui si affronti, non esclusivamente in una prospettiva traduttiva, l’opera letteraria di tanti autori di lingua tedesca e si cerchi di capire perché un poeta o uno scrittore che tematizzi la Heimat possa sentire alla stregua di un insulto la definizione di Heimatdichter (poeta cantore della patria) o, d’altro canto, perché la critica sia dovuta a ricorrere a termini quali Anti-Heimatdichtung o Neue Heimatdichtung per cogliere in qualche modo determinati fenomeni.

Su un altro versante potrebbero sorgere nel lettore non poche perplessitB se non addirittura scetticismo e ostracismo relativamente all’uso di Heimat in letteratura, seppur accompagnata da aggettivi connotanti nuove accezioni. In piena epoca di globalizzazione o glocalizzazione non saremo di nuovo alle “piccole patrie”, al “piccolo P bello” e comunque alla mitizzazione di uno spazio (territoriale, culturale, immaginale, linguistico) nel momento in cui ovunque P fortissimo il sentimento di “spaesamento”? Ulteriore sospetto per un’operazione fuori dei tempi potrebbe essere infuso nei potenziali recettori da dichiarazioni di poetica, che puzzano di scrittura civile, quali: “Vorrei scomodare divertendo e stimolare il pensiero oppositivo” (Haid 1984: 64). Se a tutto questo, infine, si aggiunge il dato di fatto che l’intera operazione si svolge prevalentemente in dialetto, la misura P colma: saremmo all’oscuritB/oscurantismo pij vieti e biechi, alla nostalgia del premoderno, al rigetto della contemporaneitB.

A guardar bene P invece proprio in questa contemporaneitB sfregiata e dissonante che si incide l’opera di quelli che mi P capitato di definire gli Habitatdichter (Nadiani 2003), riprendendo la concezione di cultura intesa come habitat di significato di Hannerz:

La vena relativistica seguita nell’analisi culturale ci ha frequentemente indotti a perifrasi come “mondi di significato”, ma cib porta ancora un’idea di autonomia e chiusura. Invece gli habitat possono espandersi e contrarsi; possono combaciare del tutto, parzialmente o per niente, e quindi possono essere identificati o in singoli individui o in collettivitB. In quest’ultimo caso, perb, P l’analisi del processo culturale nelle relazioni sociali, anziché un’asserzione assiomatica, a poter stabilire quanto sia davvero condiviso un habitat di significato: nella maggior parte dei casi il processo culturale viene modellato dall’intersecarsi di habitat di significato piuttosto differenti fra loro. […] I luoghi dove siamo stati e la gente che vi abbiamo incontrato, i libri e i giornali che leggiamo, i canali televisivi cui approdiamo, tutto cib segna la differenza. […] Tuttavia il nostro habitat di significato non dipende soltanto dalla misura in cui vi siamo fisicamente esposti, ma anche dalle nostre capacitB di confrontarci con esso: i linguaggi che capiamo, scriviamo o parliamo, i nostri livelli di alfabetizzazione in rapporto ad altre forme simboliche, e cosX via (Hannerz 2001: 28-29).

O questa l’idea di cultura che – a mio modesto avviso – di pij si avvicina a cib che in realtB siamo: migranti tra habitat di significato. E l’habitat in quanto tale, in quanto casa-ambiente stratificato e variegato in continuo movimento, rimescolamento, comprende nel suo inventario gli strati delle nostre lingue e identitB, venendosi per di pij a trovare proprio all’opposto della sognata e mitizzata Heimat in cui si articola una cultura – intesa in senso tradizionale – a “pacchetto”, cioP come un insieme integrato e condiviso di modelli di pensiero e azione, trasmesso di generazione in generazione, impermeabile ai contatti.

Poiché se P in qualche modo vero che gli esseri umani crescono in una specie di continua elaborazione culturale e che i materiali a loro disposizione fin dall’inizio avranno influenza su cib che essi assimileranno successivamente e che, dunque, il circoscritto, il locale pub costituire un’esperienza affettiva e sensoriale di tipo speciale, P necessario tuttavia abbandonare l’idea che questa esperienzialitB circoscritta, locale, sia del tutto autonoma, che abbia una sua propria integritB. Il locale, il circoscritto ha significato invece come spazio aperto in cui confluiscono le pij svariate influenze, in cui perb pub articolarsi anche una specificitB-diversitB aperta e metabolizzante una cultura diventata ideologia, cioP la penetrazione culturalmente mediata del centro nella periferia che lega la periferia ancora pij strettamente, addirittura volontariamente, agli interessi esclusivi del centro (Hannerz 2001: 96). Ma questa immagine di habitat stratificato e in movimento pub farci intuire che, nonostante le perdite giB avvenute, a differenza delle varietB biologiche, le varietB culturali posseggono l’intrinseca capacitB – a livello di singoli o di insiemi umani – di una continua auto-ricostruzione nella trasformazione. Buona parte delle varietB delle culture, pij o meno minacciate, non P semplicemente la vecchia diversitB in declino, bensX una nuova diversitB nutrita dall’ecumene globale (Hannerz 2001: 103). Tuttavia, se P vero che l’ecumene globale ovvero la Globalkultur, cioP un sistema mondiale a cui sempre pij persone oggigiorno fanno riferimento attingendo a un crescente numero di categorie universali, concetti e standard, nonché a merci e a storie disponibili un po’ ovunque, P altrettanto vero che, come in ogni ecumenismo, tale sistema – come ci ricordano le etnologhe tedesche Joana Breidenbach e Ina Zukrigl – non P uno spazio asettico e disinfettato privo delle storie e delle ferite dei singoli e degli insiemi umani e delle loro relative memorie, uno spazio privo, dunque, di rapporti di forza, privo della language of the capital [lingua del capitale e della capitale] (Pinter 1988: 21), in cui ciascuno viene gentilmente invitato a dire la sua opinione. Ogni differenza dovrB – nell’incontrare e aprirsi all’altra – “essere contrattata e la propria posizione difesa, e chi non urla abbastanza forte, soccombe. La cultura globale non P sorta con la partecipazione equanime di tutte le culture e percib non promuove automaticamente lo sviluppo di un mondo pij leale” (Breidenbach-Zukrigl 2000: 207).

O nelle pieghe e piaghe di una velocissima e incontrollabile contemporaneitB afflitta da Sehnsucht, la nostalgia patologica struggente e idealizzata per cib che non P stato o si desidera, afflitta da Heimweh, il dolore e la nostalgia della casa lontana e smarrita, che si innesta, in particolare a partire dagli anni Settanta, in tante regioni d’Europa l’operare di ormai quasi due generazioni di scrittori e poeti a ricordare da un lato l’illusorietB di questa pericolosa restaurazione con relative derive socio-politiche, e dall’altro la grettezza “maggioritaria” della perseverante retorica dell’unica bandiera. Un operare che, proprio a partire dalla sua qualitB intrinsecamente letteraria, per manifestarsi sceglie (ovvero P scelto da) “gli idiomi della montagna” (cfr. Pinter 1988), quanto di essi resta, l’impuritB ibridata della sconfitta: dialetti, lingue regionali o minoritarie pij o meno riconosciuti ufficialmente e quindi istituzionalmente ricchi ma, sociolinguisticamente parlando, in tutto e per tutto simili a dialetti. CosX facendo, quest’opera, oltre a tentare di dire il tutto con la lingua di una parte, diventa la metafora vivente e produttiva di una possibile convivenza, portando in sé l’auto-coscienza di una propria specificitB, basata sulle stimmate della complessitB linguistica e culturale contro ogni facile riduzionismo insito nel termine “identitB” e nel suo etimo a forte valenza ideologica; l’auto-coscienza della propria capacitB di ascolto senza ipotesi nostalgiche di restaurazione o di feticizzazione della memoria, non tanto resistendo, ma desistendo, accettando di aprire e di mettere in gioco la propria minoritB (Villalta 2003: 101-102). Un’opera che, per quanto P stato detto, nulla ha a che vedere coi cantori e i restauratori di un topos e un logos “puri”, con la pletora, appunto di Heimatdichter, di nazionalistici o localistici retori da strapaese, scrittori della domenica, cantori delle patrie, piccole o grandi che siano. I suoi autori, in buona parte figli del secondo Dopoguerra e dell’accelerazione trasformativa assunta da tutti gli aspetti del vivere dell’ultimo mezzo secolo, ma figli anche dei ribelli anni Settanta, oltre le geografie, le lingue le tradizioni e gli specifici esiti letterari, sia che si riconoscano e rientrino direttamente o no in gruppi e correnti sovra-regionali o internazionali, per la loro storia, per il fatto stesso di essere il frutto del flusso dinamico centro-periferia, per essere stati “scelti” dai rispettivi idiomi della montagna, relitti in balXa del language of the capital, sembrano essere accomunati da una stessa auto-consapevolezza e da un simile spirito operativo. Pertanto la loro opera pub essere vista dalle viscere del Continente Vecchio come metafora della trasformazione culturale contemporanea rispecchiante le trasformazioni provocate da esso in tante parti del mondo, nonché come “messaggio in bottiglia”, come avvertimento bipolare al continuum dinamico centro-periferia di un “necessario” comune destino di integrazione. Per questo “messaggio”, per la necessitB di questo spirito, per questa esemplare poetica propositiva della relazione, sarei propenso a parlare di una sorta di Habitadichtung, in cui rientra a pieno titolo anche il lavoro letterario di Hans Haid.

2. Hans Haid: dal Tirolo il sogno di una “poésie anthropologique”

2.1. Vita e opere

Nato nel 1938 a Längenfeld/Ötztal, Hans Haid vive a Sölden. Dopo aver conseguito nel 1968 il dottorato in etnologia all’UniversitB di Vienna, inizia una fervida attivitB di pubblicista, scrittore e organizzatore di manifestazioni di varia natura legate alla letteratura regionale, al dialetto, alla cultura e musica popolari, in particolare del mondo alpino. Nel 1976 P tra i fondatori dell’IDI (Internationales Dialektinstitut), che si prefigge, tra l’altro, di promuovere la conoscenza della letteratura negli idiomi minoritari e nelle lingue regionali. Del 1985 P la fondazione dell’associazione per la promozione e l’interconnessione di nuove forme di cultura regionale in aree disagiate, Arge Region Kultur. Nel 1989 si fa promotore di Pro Vita Alpina / International con lo scopo di studiare, far conoscere, favorire e mettere in rete attuali esperienze di vita e di cultura dell’intero arco alpino. Dal 1990, oltre a continuare la sua attivitB pubblicistica e organizzativa, si dedica ad attivitB agricole in una vecchissima fattoria ristrutturata d’alta quota, “Roale”, nei pressi di Sölden. Per la sua multiforme attivitB Haid ha ottenuto numerosi riconoscimenti, anche internazionali.

Tra le numerosissime pubblicazioni all’attivo di Haid, dai saggi agli interventi giornalistici, dalle curatele alle raccolte di poesia, qui di seguito si desidera segnalare esclusivamente le principali opere a carattere letterario, pur non potendo tacere i due imponenti volumi, rispettivamente del 1986 (nuova edizione 1988) e del 1989, a carattere illustrativo dedicati alle vecchie e nuove forme di vita sulle Alpi, che per la loro ampia diffusione hanno fatto conoscere l’autore anche presso un grande pubblico:

Vom alten Leben. Vergleichende Existenz- und Arbeitsformen im Alpenbereich. Eine Aktuelle Dokumentation. Wien: Herold;

Vom neuen Leben. Alternative Wirtschatfs- und Lebensformen in den Alpen. Innsbruck: Haymon.

Poesia e narrativa

An Speekar in dein Schneitztiechlan. Gedichte im Ötztal-Tirolischen Dialekt der Bayrischen Mundart [Poesia]. Rothenburg: Peter, 1973.

Pflüeg und Furcha. Gedichte in Tiroler Mundart [Poesia]. Wels: Welsermühl, 1973.

Abseits von Oberlangdorf [Romanzo]. München: Staackman 1975.

Nachru f[ Poesia]. Landeck: Edition Galerie Elefant, 1981.

Lese Buch. Lyrik, Prosa, Aufsätze, Polemik [Antologia di scritti di genere diverso]. Wien-Bozen: Frischfleisch & Löwenzahn/ Südtiroler Autorenvereinigung, 1984.

Prosa und Gedichte [Prosa e poesia]. Telfs: Blickpunkt Verlag, 1987.

Und olm di weissn leenen (Und immer die weißen Lawinen). Gedichte im Ötztaler Dialekt. [Poesia] Krefeld: van Acken, 1988.

Stadel, Alm und Gaudi. Neue Texte von Hans Haid [Antologia di scritti di genere diverso]. Inssbruck: Edition Löwenzahn, 1997.

Wucht und Unwucht [Antologia di scritti di genere diverso]. Innsbruck: Edition Löwenzahn, 2000.

Sie nehmen auch den Schnee – Ils prennent aussi la neige – Neue und frühere Texte von Hans Haid als eine Hommage an Maurice Chappaz. Kommentare, Übersetzungen und Bilder von Freunden [Antologia poetica con traduzioni in varie lingue e dialetti]. Herausgegeben von Gerlinde Haid und Gerhard Prantl. Längenfeld und Burgstein / Innsbruck: Edition Pro Vita Alpina & Freistaat Burgstein / TAK, Tiroler Autorinnen-und-Autoren-Kooperative, 2003.

Radiodrammi

Dorfgeschichten. Regia: Bruno Felix. ORF [Österreichischer Rundfunk, emittente del servizio pubblico] Voralberg, 1975.

Handel und Wandel. Regia: Franz Hölbing. ORF Tirol, 1979.

Absterbens Amen. Regia: Hans Haid, Franz Hölbing. ORF Tirol, 1983.

Wallfahrt. Regia: Franz Hölbing, ORF Tirol, 1985.

Die Lawine. Regia: Josef Kuderna e Martin Sailer. ORF Tirol, 1992.

Die Häutung des Sennen. Regia: Martin Sailer. ORF Tirol, 1996.

Teatro

Tanneneh. Regia: Ruth Drexel. Produzione: Tiroler Volksschauspiele Telfs, 1986.

1.2. Scrittura come ferita

La biografia sociale e politica (nel senso pij vasto del termine) nonché l’opera pubblicistica e di ricerca folklorica dell’autore tirolese sembrano aver prefigurato con decenni di anticipo gli imperativi indicati da Edgar Morin nel suo pamphlet Pour une politique de civilisation dedicato alla ricerca dei fondamenti perduti ma assolutamente indispensabili all’uomo contemporaneo per poter sopravvivere nella metamorfosi della nostra civiltB agonizzante:

«  - Solidariser (contre l’atomisation et la compartimentation) ;
- Ressourcer (contre l’anonymisation) ;
- Convivialiser (contre la dégradation de la qualité de vie) ;
- Moraliser (contre l’irresponsabilité et l’egocentrisme) » (Morin 2002 : 45).

E l’utopia ultima di una poesia intesa antropologicamente, e non pij solo letterariamente, come « façon de vivre dans la partecipation, l’amour, la jouissance, le ferveur, l’admiration, la communion, l’exaltation, le rite, la fLte, l’ivresse, le chant, la musique, la liesse, et elle culmine en extase » (Morin 2002: 50) sembra animare paradigmaticamente la scrittura di Haid, passando attraverso l’indignazione, l’ironia e la satira di denuncia, il tutto per illimitato amore verso la propria Heimat, nella fattispecie le Alpi tirolesi, la Ötztal col suo dialetto, il ristretto habitat montanaro da cui si diparte la ferita universale. Quella ferita che ha dilaniato a partire dagli anni Sessanta paesaggi, corpi, lingue, storie e mitologie di tante regioni d’Europa (cfr. Nadiani 2002) e che, sostanzialmente, P la ferita perenne inferta dal sistema economico imperante (nelle sue varie forme, anche di stato) a quasi ogni luogo della Terra, avente oggi come testa di ponte un immaginario pervasivo, senza i correttivi o le illusioni dell’universalismo illuminista e democratico o cristiano del Vecchio Mondo, accecante l’individuo smarrito, alienato e insicuro die ieri e di oggi, “fagocitato e ‘parlato’ dalle nuove tecnologie e dai nuovi linguaggi che recano l’illusione di una libertB e di una ricchezza inaudite e alla portata di tutti ma che spesso, nella realtB, per milioni di persone, non sono altro che strumenti di sfruttamento ed espropriazione” (Bettin 2001: 7).

O dunque da tale ferita, nella sua variante alpina del Tirolo, che bisogna partire per cercare di avvicinarsi alla scrittura di Haid. Nei suoi versi egli coerentemente tematizza, infatti, la radicale trasformazione di forme di economia e di vita secolari che si P abbattuta sulle genti di montagna col relativo spettro di fenomeni spesso contraddittori, la riconfigurazione, per cosX dire, di una specifica Heimat, ad un tempo archetipo di uno sconvolgimento che investe tutte le Alpi, le sue lingue e i suoi popoli, nonché la Montagna in senso lato a ogni latitudine.

2.3. La correa lingua del luogo per rimarginare la ferita e ricostruire la Heimat

“Che una Heimat sia possibile, ma cosX come essa P, difatti non lo P, di cib parla la letteratura di Hans Haid” (Paumichl-Waldner 1984: 141). Questa possibilitB, sempre negata dalla realtB ma non di meno sempre agognata, P la molla che scatena il sonoro e inarrestabile flusso linguistico a valanga dell’autore tirolese. Un flusso fatto volutamente di scarni materiali in grado, perb, di trasportare col suo rombo i reperti di vite ormai per sempre diroccate ovvero il nuovo male abbagliante (l’accumulo di denaro, il surplus di pseudo-benessere sulla pelle delle montagne e nei cuori e nelle teste delle persone); la strumentalizzazione degli elementi della tradizione, scaduti a formule vuote e decontestualizzate a uso e consumo dei foresti/turisti, in cui per altro ancora si nascondono pericolosamente derive sciovinistiche da “sangue e suolo”; la connivenza degli apparati di potere (politico e ecclesiastico) nell’adorazione, in una sorta di neanche tanto strisciante “fascismo culturale”, dei nuovi dei, idoli e fantasmi – la santa trinitB di denaro, patriottismo e montagna (Haid 1984: 127) – : le “nuove” Alpi, insomma, in quanto immenso Parco Giochi coi nativi a fungere da comodi guardiani e oliatori del sistema. Una montagna che – come inutilmente preannunciato dal poeta, facile profeta inascoltato, e com’P quotidianamente sotto gli occhi di tutti – si vendica alla prima grande tempesta di neve, al primo violento nubifragio, tutto travolgendo con le sue slavine di neve o fango, lo spaesamento e la disperazione di tanti.

La semplice elencazione verticale, a “valanga”, di dati umani e paesaggistici, di verbi all’infinito o al participio passato in versi “semplici” e brevissimi, avvalenti della forza dirompente insita nell’evocativa vocalitB del suo dialetto basico innervato naturalmente nel “narrato”, memore della saggia sobrietB linguistica, del silenzio e dell’ascolto dei montanari in opposizione alla “chiacchiera” dei potenti, e che non disdegna il ricalco della melodia di canto popolare, della formula magica o addirittura lo scimmiottamento del rito religioso, provoca nell’ascoltatore – pij che nel lettore “sordo” – una qualche reazione: di riprovazione nei benpensanti, di assenso negli “alternativi”, sempre e comunque infrangendo il muro dell’indifferenza. Dietro la maschera di un’ironia amara, della satira o del sarcasmo, con cui Haid scrive il necrologio di un mondo sconfitto o pij spesso si appella ai viventi (Schönhauer 2000: 119), ovvero dietro la tenera partecipazione per i “vinti” (uomini e natura fatti fuori dalla storia o dal presente), P indubbio che si trova un forte impulso etico. Un impulso che se pub aver trovato un terreno fertile nel sentire comune antagonistico dei movimenti ambientalisti e pacifisti tra gli anni Settanta e Ottanta, molto vivaci in ambiente tedesco, che dava voce anche all’elemento culturale minoritario con lo strumento del dialetto (l’ “arma” secondo André Weckmann, 1978: 26-38) contro l’omologazione della lingua e cultura standard, o lo pub trovare tuttora nelle istanze “new global”, nulla ha a che vedere con una retorica didattica dalle forme consunte, secondo una formula con cui si tende a incasellare oggi la cosiddetta poesia civile (Cortellessa 2003: 23).Tale impulso risulta essere piuttosto la naturale manifestazione della “realtB nostra e altrui, la ferita privata nella storia pij grande”, poiché qui si tratta di “operare per ritrovare le cose, le idee, le poetiche vive, in lingua o in dialetto non importa pij, del capire-pensare, sullo scrivere eterodiretto, e della poesia sulla letteratura” (D’Elia 2002: 33; 38). Nel caso di Haid questo operare, questa tensione etica si avvale della sua lingua nativa, non considerata perb alla stregua di mero materiale vergine con cui condurre esperimenti, come proclamato dagli esponenti della famosissima “Wiener Gruppe”, pur accogliendone il poeta probabilmente qualche suggestione stilistica; né intesa come codice dell’innocenza o naVveté opposto all’invadenza e allo strapotere dello Schriftdeutsch, della lingua ufficiale, pur giocando qui e lB sull’ironica contrapposizione di valore dialetto-lingua: tutt’altro, il male si annida anche nel dialetto e questo deve pronunciarlo, anzi solo la pronuncia in esso permette la deflagrazione nelle orecchie dei parlanti-uditori. E l’effetto (lo “scandalo”) conseguito P direttamente proporzionale al grado di estraneitB, cioP di esteticitB: materiali basici legati a filo doppio all’etnico, al locale, quindi “riconoscibili”, vengono in realtB allineati o elencati in modo arbitrario e spaesante con improvvise rotture, in un crescendo vorticoso accentuato da forte ripetitivitB e sonoritB. In tal modo i versi di Haid, connotando universalmente la “bellezza” come concetto pragmatico caratterizzato da azioni volte alla trasformazione in una tradizione che risale a Brecht, superano le barriere alzate da certa critica attorno ad alcune scritture dialettali, sostenendo che “un testo dialettale, a prescindere da quanto afferma, P di per sé un’espressione del regionalistico” (Berlinger 1980: 89), oppure – su un altro versante – di mancare di reale necessitB espressiva e di trapiantare sul terreno del dialetto materiali culturali del tutto estranei alla sua storia (Brevini 1996: 238).

3. Tradurre il minore

3.1. Traduttore/traditore?

Una prassi abbastanza consolidata vuole che nel caso di testi letterari da vertere, il traduttore si serva per tale operazione esclusivamente della lingua madre, a differenza di quanto accade per altre tipologie testuali, in cui egli pub riuscire a mettere degnamente a frutto le sue abilitB anche nelle lingue straniere studiate. Cosa succede, perb, quando il traduttore che, avendo come lingua “prima” in una situazione di diglossia un codice minore, normalmente non riconosciuto come ufficiale, svilito o addirittura definitivamente sconfitto da un punto di vista sociolinguistico, opta per la lingua “altra”, la “seconda”, la veicolare vincente, che per quanto egli l’abbia ormai interiorizzata facendone addirittura un uso quasi esclusivo per molte delle sue mansioni quotidiane, non l’ha comunque – come si suol dire – succhiata col latte materno e relative affettivitB (anche negative)?

Poiché se si dB il caso del tal o tal altro traduttore che di necessitB si trova a tradurre qualche sporadico testo poetico o addirittura intere antologie nella sua lingua minoritaria, la norma sembra essere quella di un uso privilegiato dello standard da parte dei traduttori letterari, non solo di narrativa. Tale dato di fatto P dovuto spesso, naturalmente, a imposizioni di carattere editoriale, forse ovvie per la narrativa, ma non nel caso della poesia.

Restringendo il campo a quest’ultima, risulta stimolante il chiedersi cosa faccia scattare la molla dello standard nel poeta traduttore bilingue (lingua minore o di minoranza pij lingua ufficiale). Si tratta soltanto della volontB di evitare – sempre per motivi editoriali – un supplemento di lavoro e di spazio (di costi, dunque, poiché per convenzione alla traduzione nella lingua minore si accompagna sempre anche quella nella lingua ufficiale), di dover affidare cioP il suo Testo anche ai vantaggi comunicativi della lingua veicolare? E nell’eventualitB che egli si trovi a dover tradurre da una lingua minore, non sarebbe l’operazione del tradurre nel minore che egli giB possiede (da cui P posseduto) la pij naturale? Se perb egli sceglie lo standard, lo fa perché – ebbene sX, supponiamo anche questo – non crede fino in fondo alla bontB dell’operazione inversa, non crede cioP alle potenzialitB della sua lingua prima, rimanendo succube della cultura e lingua ufficiali (dominanti) in quanto nella realtB dei fatti queste vengono ormai a “coprire” ogni ambito esperienziale? In tal modo egli non farebbe che confermare per altre vie lo scetticismo letterario che circonda le scritture minoritarie (dialettali) negli attuali contesti sociolinguistici in molte regioni europee, anche lB dove il minore P protetto e garantito dallo Stato, quando addirittura non P (sulla carta) la prima lingua ufficiale (vedi Irlanda). A tale riguardo in Italia, ad esempio, negli ultimi tempi sono state avanzate non ingiustificate riserve e obiezioni nei confronti della poesia e delle poetiche in dialetto, sentite come superflue o ridondanti. Questa scelta dello standard non sanzionerebbe dunque una volta per sempre l’inadeguatezza di tradurre il minore, presente in molti generi testuali, col minore del traduttore?

L’elenco delle questioni sollevate dalla scelta di cui si diceva potrebbe continuare, ed P strano che nel pur cauto risveglio (cfr. Venuti 1998; Cronin 2003: 138-172) in atto nei cosiddetti Translation Studies attorno alle problematiche traduttive legate a lingue di minoranze gli ambiti testé prospettati non godano della minima attenzione da parte degli studiosi del settore, confermando quanto scrive Cronin a proposito dei pur valenti post-colonial critics: “The critique of imperialism becomes itself imperialist in ignoring or marginalizing the historical and translation experience of most European languages” (Cronin 2003: 140). E ad essere sinceri – almeno da parte di chi scrive – ogni qual volta si affronta la traduzione da un dialetto straniero con gli strumenti dello standard, pub succedere di sentirsi un poco imperialisti, se non peggio. Ci si ritrova quasi nei panni di Owen, il personaggio (un giovane nativo acculturato) che nella piPce del noto commediografo irlandese Brian Friel Translations, ambientata in County Donegal negli anni Trenta dell’Ottocento, si vende agli inglesi aiutandoli a mappare il territorio prendendo “each of the Gaelic names – every hill, stream, rock, even every patch of ground which possessed its own distinctive Irish name – and Anglicize it, either by changing it into its approximate English sound or by translating it into English words” (Friel 1996: 409). Un’operazione peraltro ben nota anche dalle nostre parti. Eppure, il lavoro del traduttore del minore verso lo standard pub davvero paragonarsi a quello indicato da Owen: “My job is to translate the quaint, archaic tongue you people persist in speaking into the King’s good English” (404)?

Forse, a livello pij o meno conscio, le motivazioni del “tradimento” sono altre e vanno proprio nella direzione opposta, al fine di dare alla vecchia lingua bislacca veramente quanto le spetta.

3.2. Le Alpi tirolesi in Romagna?

Tra i tre tipi di traduzione individuati a suo tempo da Fortini senza l’intenzione di costruire un modello valido per ogni traduzione (1974: 340-341), il vertere poetico sembra iscriversi nel secondo, quello della trasposizione soggettiva, dell’avventura e dell’esperimento interiore, tipica del traduttore-scrittore o poeta in proprio. A sua volta questo tipo presenta due aspetti, di servizio, con livelli e scopi critici diversi, oppure di esercizio spirituale o dello spunto autobiografico. Probabilmente nell’avventuroso viaggio intrapreso dal traduttore da poesia a poesia, nel caso specifico qui trattato (dal minore al maggiore), questo aspetto di servizio non occuperB poco spazio nel suo zaino emotivo-mentale. Poiché se in teoria sarebbe possibile e, forse, preferibile trasporre il minore (eminentemente orale) in un altro minore (altresX eminentemente orale) – e dal punto di vista meramente linguistico la cosa deve funzionare, perché altrimenti ci troveremmo di fronte a dei codici imperfetti, quando invece sappiamo che le persone in quei codici si capiscono benissimo, con le differenze e relative difficoltB traspositive riscontrabili in qualsiasi coppia di lingue e dovute al loro specifico “genio” – egli “sente” che, a parte soddisfare il bisogno di quel testo, di quell’anima (D’Elia 1990: 59-60) della sua lingua prima, egli, dal punto di vista comunicativo e – per cosX dire – di politica culturale, non rende il miglior servizio possibile a quel testo, a quell’anima. Insomma: egli pur riuscendo ad applicare al meglio all’interno del suo minore la formula elaborata da Eco a proposito del testo poetico, dovrebbe scontrarsi ancora con alcune incognite, che, certo pub far finta di non vedere nascondendosi dietro il soggettivo-poetico, tradendo la sua naturale vocazione al servizio, alla mediazione. Queste incognite sono date dai campi di forza magnetica tra il minore/i minori e il relativo maggiore e la rispettiva immagine ovvero prestigio delle lingue/culture in gioco, che hanno a che fare in modo diretto e proporzionale con le storie vive dei parlanti, della loro Heimat in senso lato, col fatto che questa sia minore o maggiore.

“L'immagine della lingua, fatto soggettivo, riguarda molte discipline (sociologia, psicologia sociale, linguistica ecc.) in quanto attraverso il suo costituirsi si forma il prestigio che arreca al parlante il fatto di parlare una certa varietB e l'identificazione nel sentirsi accettato da un gruppo. Questo conferma che l'importanza del linguaggio P da attribuire alla socializzazione che esso compie dell'esperienza, fatto questo che influisce nella formazione delle immagini della lingua o delle lingue che si parlano” (Tessarolo 1990: 82). Tra il sentimento di orgoglio e quello di prestigio pub esistere una frattura in quanto il parlante, pur orgoglioso della lingua, pub essere consapevole della sua carenza di prestigio e pub accettare la sostituzione di quella che dovrebbe essere la varietB standard corrispondente alla sua varietB nativa con una lingua di grande prestigio. Il prestigio P dunque una valutazione soggettiva e risente di condizionamenti geografici, storici ed economici. Se l’immagine delle lingue che abbiamo dipende dal loro prestigio, questo P stato stabilito da sempre dalla language of the capital che, a seconda dello suo stato di risemiotizzazione ha avuto e ha tuttora, come specchio l’implacabile operazione di patoisement di tantissime lingue. Tale termine si deve allo studioso Robert Lafont che lo ha impiegato a proposito del provenzale. Per patoisement si intende, in una situazione di lingue in contatto, l’assunzione da parte dei parlanti una determinata lingua, la svalutazione ufficiale di questa loro lingua, vista come meno prestigiosa e incapace di rinnovamento, e il conseguente abbandono della stessa: essi, in tal modo, condannano a morte la loro lingua, dopo una pij o meno lunga agonia della stessa nel braccio della morte. Questa agonia pub protrarsi in alcuni casi – generalmente economici – sotto forma di pidginizzazione. Benvenuto Terracini, un precursore negli studi su questo argomento, giB quasi mezzo secolo fa scriveva:

Morire per una lingua, cioP mutarsi, viene a significare il momento in cui per un determinato gruppo di individui una forma particolare di cultura si ritira pij o meno violentemente. […] Prestigio P un concetto storico e culturale molto chiaro; per il suo carattere indefinito P la parola magica che permette appunto di impostare il problema del cambio linguistico come forze culturali diverse, perché significa in ultima analisi la forza viva e travolgente della cultura umana – dal potere del numero e delle armi, dai ritrovati tecnici, sino al fascino dell’arte e del pensiero puro – in quanto sospinge il potere espansivo del linguaggio, il quale, a sua volta possiede le sue qualitB specifiche, poiché il linguaggio P una forma specifica di cultura. O per altro evidente che, agli effetti di un conflitto di lingue, il valore intrinseco di ciascuna delle forme di civiltB che si fronteggiano conta fino a un certo punto; in un conflitto linguistico ha una parte decisiva il momento della coesione sociale che trova appunto nella lingua la propria espressione caratteristica” (Terracini 1996: 6-12).

Troppo spesso ancora il pensare determinati fenomeni P influenzato da una visione statica e monolitica delle lingue e delle culture, a compartimenti stagni, quando sappiamo – come giB si diceva – che noi parlanti siamo migranti tra habitat di significato. E l’habitat, in quanto casa-ambiente stratificato e variegato in continuo subbuglio, include nel suo inventario le stratificazioni di pij lingue e identitB.

Insomma, il minore non P sostanza inalterata e inalterabile né, tantomeno, sostanza a sé stante, per quante istanze di autocoscienza, diversitB e autonomia rivendichi, ma rientra in una relazione osmotica con il relativo maggiore e con la lingua-mondo.

Allora se da un punto di vista meramente tecnico-linguistico P possibile, per esempio, trapiantare la forte vocalitB monosillabica di versi in dialetto tirolese della Ötztal (letterariamente in gran parte inesplorato) nel dialetto romagnolo (tra l’altro di grande tradizione poetica novecentesca) della piatta campagna ravennate, superando anche gli scogli o meglio gli spuntoni rocciosi soprasegmentali, tonemici, paralinguistici, pertinenti alla sostanza extralinguistica, forse perb non P del tutto opportuno.

3.3. Il compito del traduttore “minore”

Si diceva della relazione osmotica tra minore e maggiore. In questa fittissima rete di interdipendenze, a seconda delle regioni pij o meno sbilanciate a favore del maggiore (e oggi, per ovvie ragioni, sempre pij e a velocitB inimmaginabile solo qualche decennio fa) vi sono anche le maglie letterarie. Allora, nel tradurre da un minore straniero nel proprio minore – come giB si P detto: operazione probabilmente fattibile tecnicamente e assolutamente lecita per il bisogno del soggetto traducente – a voler essere onesti e andare a guardar bene ci si troverB di fronte all’impossibilitB di commisurare e ricreare le infinite interdipendenze di partenza con quelle infinite d’arrivo, stante l’incommensurabilitB delle esperienze di carattere storico-linguistico, storico-culturale, storico-letterario ecc., nonché di tutte quelle in atto, dovute alle rispettive interdipendenze; stante la proliferazione di questo particolarissimo tipo di realia, poiché la traduzione non avviene tra sistemi bensX tra testi, e come tali contestualizzati, collocati. O la tara di quest’altro zaino che il traduttore nel suo avventuroso viaggio non riesce a trasportare, il “residuo” decisivo troppo ingombrante e – questo sX – troppo connotato per poter negoziare una qualche legge di compensazione. Probabilmente P questo dato di fatto che “fa sentire” “dislocato” il minore tradotto in altro minore – si ripete: non tanto le loro peculiaritB linguistiche e nemmeno la desuetudine all’operazione –, perché volenti o nolenti i rapporti tra le lingue e le culture sono volgari rapporti di forza (economici, politici, culturali ecc.). La strada da seguire dovrB essere un’altra.

Non si tratta di riterritorializzare il minore in un altro minore ma di instaurare dall’interno un esercizio minore d’una lingua maggiore, di affrontare il problema di come strappare a questa lingua una “letteratura minore”, nel senso di Deleuze-Guattari, capace di scavare il linguaggio e di farlo filare lungo una sobria linea rivoluzionaria, di come diventare il nomade, l’immigrato e lo zingaro della propria lingua (35):

“Anche chi ha la sventura di nascere nel paese d’una grande letteratura deve scrivere nella propria lingua come un ebreo ceco scrive in tedesco, o come un uzbeko scrive in russo. Scrivere come un cane che fa il suo buco, come un topo che scava la sua tana. E, a tal fine, trovare il proprio punto di sotto-sviluppo, un proprio dialetto, un terzo mondo, un deserto tutto per sé. […] O soltanto la possibilitB di instaurare dall’interno un esercizio minore d’una lingua anche maggiore che permette di definire popolare, marginale ecc. una letteratura. Solo a queste condizioni la letteratura diviene realmente macchina collettiva d’espressione e riesce a trattare, a coinvolgere i contenuti” (Deleuze; Guattari 1996: 33).



Il “compito” del traduttore dal minore consisterB non tanto nel tentativo di “redimere” imperialisticamente questo nel maggiore con l’obiettivo di assegnargli chissB quale dignitB, bensX nello sforzo di far risuonare nel maggiore la memoria (le stimmate) di un diverso minore, il suo “dialetto” nell’originaria accezione etimologica del termine, di dialégein, di “parlare attraverso”. Attraverso la ferita stratificata, fascicolata, comune a tutte le lingue, anche se in gradazioni significativamente diverse. Cib comporta, come afferma lo scrittore creolo, Édouard Glissant, che si abbandoni il monolinguismo, l’altro grande feticcio del maggiore, che si parli e scriva in presenza di tutte le lingue del mondo. Scrivere in presenza di tutte le lingue del mondo non vuol dire, ovviamente, conoscere tutte le lingue. Vuol dire che, nel contesto attuale delle letterature e del rapporto fra la poetica e il caos-mondo, non si pub pij scrivere in maniera monolingue. Significa dirottare e sovvertire la lingua maggiore non operando attraverso sintesi, ma attraverso aperture linguistiche, che permettano di pensare i rapporti delle lingue fra loro, oggi, sulla terra: rapporti di dominazione, di connivenza, d’assorbimento, d’erosione, di tangenza, ecc – come il prodotto di un immenso dramma, di un’immensa tragedia a cui la lingua dello scrittore non pub sottrarsi (Glissant 1998: 33). Si tratta di pensare all’interno del proprio habitat di significato, del proprio immaginario la totalitB delle lingue e di realizzarla attraverso la pratica della lingua d’espressione maggiore, aprendo il luogo, senza annullarlo o diluirlo, “traducendo” la ferita, il dramma (che in un’operazione di traduzione include la trasformazione della lingua, la sua irriconoscibilitB) mediante una poetica della Relazione (Glissant 1998: 25) nell’imprevedibile, in cui arrivare a sperimentare la debolezza, la mitezza, la fortezza e la violenza dell’alteritB, di altri mondi, lingue e identitB, e in essi finalmente scoprire che il nostro stare P sostentato da incontri, dialoghi e conflitti con altre storie, altri posti, altre persone (Chambers 1996: 9).
Il traduttore “minore”, colui che ricrea il minore nel maggiore, cerca di fare di questo “un uso minore o intensivo, opporre il carattere oppresso di questa lingua al suo carattere oppressivo, trovare i punti di non-cultura e di sottosviluppo, le zone linguistiche di terzo mondo attraverso le quali una lingua sfugge, un animale si inserisce, un concatenamento si innesta” (Deleuze-Guattari 1996: 49), facendo il sogno contrario, rivoluzionario, alternativo ai veri rapporti di forza: saper creare un divenir-minore (49): affatto l’opposto del “King’s good English”. O questo il servizio; P questa la mediazione che gli viene richiesta al fine di risvegliare la nostalgia per l’originale e di “indurre un fenomeno d’interferenza fra i due testi, sX che il vero risultato sia nel sovrapporsi d’una memoria e di un presente” (Fortini 1970: 336); cercare di capire veramente un testo come originale, cioP capirlo indipendentemente dalle sue condizioni di vita in una data lingua (dominante, morta o moribonda), capirlo nella sua struttura sopra-vvivente. Il compito del traduttore – costituzionalmente indebitato nei confronti dell’originale e in balXa della sua legge – sarB quindi di corrispondere a questa richiesta di “sopra-vvivenza” costituente la struttura stessa dell’originale (Alunni 1989: 58). A questo scopo, sostiene Benjamin, egli non deve né riprodurre, né copiare l’originale, neppure, essenzialmente preoccuparsi di comunicare il senso dell’originale; il traduttore deve assicurare la “sopra-vvivenza”, cioP la “santa crescita” dell’originale. La traduzione aumenta l’originale, modifica che, nella misura in cui sopra-vvive, non finisce di trasformarsi, di accrescersi; e modificare l’originale modificando anche la lingua traducente: “Come i frammenti di un vaso, per lasciarsi riunire e comporre, devono susseguirsi nei minimi dettagli, ma non percib somigliarsi, cosX, invece di assimilarsi al significato dell’originale, la traduzione deve amorosamente, e fin nei minimi dettagli, ricreare nella propria lingua il suo modo di intendere, per far apparire cosX entrambe – come i cocci frammenti di uno stesso vaso – frammenti di una lingua pij grande” (Benjamin 1962: 49). O questa trasformazione del maggiore, della lingua traducente, P l’accrescimento dell’originale minore che conta. O questa Lingua Pij Grande (la poesia) la Heimat, l’habitat di significato, la vera lingua prima di cui si P sempre provata nostalgia. E se in tutto questo si avranno comunque “effetti collaterali” quali una maggiore divulgazione della Lingua Pij Grande (dovuta all’ampia circolazione della lingua veicolare) o una diversa immagine positiva del minore che dribbli il potenziale ostracismo preconcetto verso la sua supposta oscuritB esotica, non si piangerB di certo.

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