APPUNTI SULL’AUTOTRADUZIONE

(da dialetto campano a lingua italiana)

di Achille Serrao

Tradurre, fare i conti con le resistenze di varia natura che il dialetto oppone, è stato e continua ad essere assillo personale; condiviso, credo, dalla quasi totalità dei poeti dialettali. Tradurre, poi, nella convinzione verificata della “intraducibilità” – spesso ovviata con mezzucci lessicali o grammaticali o sintattici di “povera” resa nello standard italiano – è atto di autolesionismo poetico-letterario.
Ma tradurre è essenziale ( anche se è un po’ o molto tradire, come qualcuno ha opportunamente osservato)(1). Non è il caso di enumerarne le ragioni, sufficientemente note, ritengo.
E, dunque, negli anni della conversione al dialetto ( così è stato definito il mio trapasso alla “lingua minore”) e per ciascuna edificata raccoltina di versi, ho sempre avvertito l’esigenza di segnalare che: “Le traduzioni italiane a piede delle poesie sono caute approssimazioni agli originali. Lo spessore semantico di molti termini dell’idioma adottato mi convince della inadeguatezza della traduzione che va, pertanto, assunta come semplice versione interlineare”.
Insomma, il problema generale, affrontato fin dalla latinità classica, ( Livio Andronico ne fu uno dei massimi interpreti, ma si veda anche il De optimo genere oratorum di Cicerone, dove si coglie, come è stato acutamente affermato, un abbozzo “di aurorale teoria della traduzione(2)”), nello specifico del dialetto e nel caso più intimo dell’autotraduzione, propone addensati ulteriori – rispetto alla versione da lingua a qualsivoglia lingua e rispetto alla duplicità degli auctores (poeta-traduttore) – elementi da vagliare. Elementi tutti rimessi all’area psichica esclusiva del poeta, essendo egli contemporaneamente “inventore” dell’originale e artefice della versione italiana a pie’ di pagina. In questo stato di monopolio psicologico, la diversa “forma” delle lingue in gioco (dialetto-italiano) – prodotto ciascuna di infiniti, talvolta comuni spesso divergenti, fattori culturali, storici e antropologici – pone innanzitutto, a mio parere sommesso, una esigenza di sdoppiamento della personalità, per ricuperare al traduttore ( che è anche poeta) un sufficiente grado di refrigerazione dal coinvolgimento emotivo che lo ha spinto (guidato) nella confezione del verso. Refrigerazione necessaria, credo, perché egli rientri in possesso pieno e cosciente ( e obiettivo) della strumentazione del traslare in “altra” lingua, all’inizio con la sola ambizione del vertere interlineare. Poi potrà, verificata la “consistenza” e la “adeguatezza” dei mezzi disponibili, impegnarsi in ipotesi più complesse e smaglianti di traduzione.

Ma, a parte le motivazioni psicologiche ( di rilievo, tuttavia, nel particulare poetico; donde la opportunità di attribuirvi credito adeguato), ben altro si oppone, nel caso del dialetto personale ( di Caivano (Caserta), che peraltro, non ha tradizione di poesia scritta), ad una traslazione purchessia, anche a quella con pretese di semplice versione interlineare. I personali tentativi di privilegiare, nel tradurre, il ritmo del testo o, che so, i suoni o, ancora, gli aspetti metrici, sono naufragati dinanzi alla prima specificità caratterizzante: quella che poco su ho definito spessore semantico, un dispiegamento di “trappole”che non favoriscono certo possibilità “rielaborative” dell’idioma prescelto nello standard italiano. Si tratta di forme linguistiche “le quali rappresentano dei “nodi” che contribuiscono a caratterizzare il dialetto, ad accentuarne le peculiarità intrinseche, ma che allontanano necessariamente da qualsiasi altra lingua”(3).
Due esempi ( ma potrei addurne numerosissimi altri ) per evidenziare le articolazioni del problema. Il primo è tratto dalla poesia “Nu tiempo c’è stato …” (C’è stato un tempo), inclusa nella raccolta ‘A canniatura ( La fenditura) del 1993, ed è rappresentato dalla parola iacuvèlla:

Nu tempo c’è stato ch’’e parole

nun cagnavano ll’aria, addu nuje
frièvano cu ll’uoglio
d’’a iacuvèlla arèto ‘a vocca attenute
pe’ paura, cummeniènza che ssaccio
nu chiuvo stu silenzio … Abbastava
na guardata, ‘a strenta d’’e mmane e ttécchete
n’ata manera ‘e parlà. Sulamènte vicino
ô lietto d’’o muorto succedeva
n’appìcceco ‘e voce nu vòtta
vòtta comme d’auciélle annude
pe’ quacche presa ‘e pane.

( C’è stato un tempo in cui le parole / non cambiavano l’aria, dalle nostre parti / friggevano con l’olio / della furbizia trattenute dietro la bocca / per paura, convenienza che so / un chiodo fisso questo silenzio … Bastava / un’occhiata, una stretta di mani ed ecco / un altro modo di parlare. Solo vicino / al letto del morto si accendeva / una baruffa di voci un pigia / pigia come d’uccelli nudi / per qualche presa di pane.

Nella sezione “Noterelle filologiche”, in appendice al volume, così spiego il senso di iacuvèlla: “s.f. intrigo, astuzia, vezzi, moine. Etim: dal francese Jacques= Giacomo, che ha il significato metaforico di “sciocco, semplicione, almeno a datare dal sec. XIV ( nel 1358, infatti, i contadini in rivolta furono detti spregiativamente Jacques Bonhommes ); il nome Giacomo, nella sua forma latina Jacobus, ha dato Jàcovo in napoletano.”
Come rendere la ricchezza connotativa di iacuvèlla nella traduzione italiana? “Furbizia” che vi compare non è che una pallida approssimazione ad un originale ben più complesso, “spesso”, cui sono legate situazioni concrete, esperienze della quotidianità che hanno attribuito ( nel tempo tettonicamente accrescendola) la ricchezza semantica alla parola.

Il secondo esempio è dato dal termine appucenùto, che è nel testo “Mal’aria” della omonima silloge (1990):

…………………………..
Se ne só jute muro muro da
‘o maciéllo ‘a vetrera ‘a dint’ê ccase
appucenùte sott’ê ciéuze senza
vummecarìe e mmanco na menata
‘e chiave, ll’uocchie asciutte se nn’è ghiuta
‘a ggente parlanno addò va va
viate a lloro e a chillu Ddio ch’’e fa campà.

( ……… / Se ne sono andati rasentando il muro / dalle fornaci dal macello dalle case / rannicchiate sotto i gelsi senza / smancerie e neanche una mandata / di chiave, gli occhi asciutti se n’è andata / la gente parlando dove va va / beati loro e quel Dio che li fa campare).

Appucenùto è : “Agg. che significa: “Rannicchiato su se stesso per freddo o per malore”. Etim: voce coniata sullo spagnolo pocho = “sbiadito, scolorito”; il freddo o il malore rendono bianchi in volto.” La traduzione italiana prescelta è “rannicchiato”, insufficiente a rendere la complessità storico-culturale e linguistica, e antropologica della parola.

E, ancora, ostano ad una versione “letterale”, con le forme idiomatiche, numerosissime, le forme ellittiche, le allusioni, le metafore, tutte che producono una “perdita” nella traslazione in altra lingua. In quale modo, poi, riprodurre il suono, il fonosimbolismo tipico dialettale? E, inoltre, quale scelta lessicale per il testo immissario nel caso delle frequentissime reduplicazioni? del sostantivo, ad esempio, nell’intento di esprimere “intensità”; o delle locuzioni numerali avverbiali, o, ancora, del pronome dimostrativo preceduto dalla congiunzione? E come sciogliere il nodo della concretezza terminologica dialettale che si rivela in innumerevoli modi e sfumature? In quale maniera atteggiare la lingua di fronte all’uso dei traslati vernacolari ( molto evidente nei modi di dire ) che permettono la continua contestualizzazione del dialetto, cioè la ripresa di fatti e azioni della realtà?

Occorrerà nel tradurre, tenere infine e generalmente presente la circostanza che il passaggio dal dialetto alla lingua comporta un acquisto di esplicitazione e una perdita di espressività: “… rispetto al dialetto la lingua richiede enunciati più impersonali e meno legati al contingente, con meno sottintesi e un più marcato grado di astrazione …”(4).

Quanto detto favorisce la conclusione crociana della “intraducibilità” assoluta in forma estetica e mi convince ad aderirvi. Ma per l’orientamento del lettore è indispensabile, si sa, un “ a fronte” sia pure pedissequo, in particolare per il lettore che volenterosamente si avventura nell’approfondimento di un testo poetico in un dialetto non suo. Sicché non mi resta che ribadire quanto trascritto ad inizio di questi brevi e certamente incompleti appunti.

NOTE

1. Il tema del tradurre, dibattuto talvolta fino al paradosso, ha visto nel Novecento interpreti di varia caratura assumere posizioni di contrasto: a partire dalla intransigente di Benedetto Croce che sostiene nell’ Estetica l’assoluta intraducibilità della poesia: “Si può elaborare logicamente ciò che prima era stato elaborato in forma estetica, ma non ridurre ciò che prima era stato elaborato in forma estetica in altra forma anche estetica”. In opposizione è la ammissibilità del tradurre sostenuta da Giovanni Gentile e Francesco Flora. E poi numerosi altri apporti di teorici dell’arte e dei linguaggi, talvolta di mediazione fra gli esplicitati punti di vista.
2. Si legga l’ottimo saggio di Dante Mafia, La traduzione, in “Folium”, IV, 2, agosto 2002.
3. Un approfondimento delle problematiche di traslazione dialetti-lingua italiana ( e lingua inglese) è nel recente saggio di Annalisa Buonocore Dialettali e neodialettali in inglese, Cofine, Roma, 2003.
4. Grassi G., Sombrero A.A., Tellmon T., Fondamenti di dialettologia italiana, Roma-Bari, Editori Laterza 1997, pag. 48.

Achille Serrao è nato a Roma nel 1936 da genitori campani.
Ha pubblicato, dopo volumi di poesia in lingua, racconti e saggi critici, versi dialettali ( di Caivano, in provincia di Caserta) nelle sillogi: Mal’aria (1990), con prefazione di Franco Loi, ‘O ssupierchio (Il superfluo) (1993), ‘A canniatura (La fenditura) (1993), con nota critica introduttiva di Giacinto Spagnoletti, Cecatèlla (Mosca cieca) (1995), prefazione di Giovanni Tesio, Semmènta vèrde (1996), prefazione di Franco Brevini.
Ha curato, per l’Editore Campanotto di Udine nel 1992, l’antologia di poeti neodialettali Via Terra.
E’ incluso nei volumi antologici mondadoriani, La poesia in dialetto di Franco Brevini, per i quali ha anche curato la traduzione e l’apparato filologico dei testi napoletani dal ‘500 al ‘900.